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L’8 e il 9 giugno pretendiamo futuro e diritti

L’8 e 9 giugno si vota su cinque referendum che non possiamo ignorare. Parlano di lavoro senza tutele, di licenziamenti facili, di precarietà che divora ogni orizzonte esistenziale, di cittadini di fatto che restano invisibili per legge. 

 

Parlano di noi. Dei nostri amici, dei nostri collettivi, delle nostre famiglie. Di chi lavora troppo e guadagna troppo poco. Di chi vive in questo Paese da anni e non può ancora scegliere chi lo governa.

 

Toccano la vita quotidiana di una generazione intera – la nostra – cresciuta tra stage non pagati, contratti a termine e attese infinite per essere riconosciutÉ™ parte di un Paese che già abitiamo, parliamo, cambiamo ogni giorno. Ci riguardano perchè contribuiscono a sgretolare il modello neoliberale che abbiamo ereditato: quello che ha smontato i diritti sociali, normalizzato la precarietà e costruito muri intorno all’appartenenza.

Per affermare il mondo che vogliamo, per tutelarci dalla mano violenta dei padroni e dei potenti, per difendere il nostro diritto ad una vita degna di essere vissuta, e libera da ingiustizie sigillate da leggi di ispirazione razzista, voteremo sì.

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  1. Riprendiamoci il diritto a non essere licenziate senza motivo. Cambiamo dieci lavori in dieci anni e, ogni volta, possiamo essere mandate via senza spiegazioni. Il Jobs Act ci ha tolto il diritto al reintegro: se ci licenziano ingiustamente, prendiamo due soldi e basta. Votare SÌ significa riaprire la strada al reintegro, e cioè alla dignità. Significa che quando troviamo un lavoro possiamo difenderlo, che non dobbiamo accettare qualsiasi condizione per paura di essere lasciate a casa, che non siamo ricattabili. Un futuro stabile comincia da un presente con diritti.
     

  2. Riprendiamoci il diritto ad essere tutelate in tutti i luoghi in cui lavoriamo. Per chi lavora in piccole realtà come associazioni, cooperative, start-up, studi, bar, negozi, le tutele contro i licenziamenti sono ridotte al minimo per legge. Votare SÌ significa dire che i nostri diritti non devono dipendere dal numero di dipendenti di un’azienda, che non siamo né lavoratori usa e getta e nemmeno “di serie B”. Votare SÌ significa ribadire che siamo un’unica classe e riaffermare un principio fondamentale: i diritti devono valere per tutte e tutti, ovunque si lavori.
     

  3. Riprendiamoci la stabilità per costruire la vita che vogliamo. La precarietà non è una condizione naturale, ma una scelta politica che oggi è diventata sistema. La progettualità della nostra vita dipende dall’orizzonte temporale del nostro contratto. Votare SÌ vuol dire dire poter pensare a un futuro, una casa, una relazione, una genitorialità, senza paura di restare senza lavoro da un giorno all’altro; vuol dire rompere la gabbia mentale della precarietà, che ci fa sentire inadeguate, sostituibili, sbagliate, senza valore. Con questo voto restauriamo il tempo come diritto e come spazio per costruire la vita che vogliamo.
     

  4. Riprendiamoci il diritto a incolpare i padroni delle nostre ferite e morti sul lavoro. Con le regole attuali, se ci facciamo male è solo colpa nostra, anche quando, nel più tragico dei casi, perdiamo la vita. Chi commissiona un lavoro tramite appalto non è responsabile per gli infortuni e il suo profitto è costruito sull’impunità. Votare SÌ vuol dire restituire giustizia a chi lavora nei cantieri, nei ristoranti, nelle imprese di pulizia, nella logistica; tutelare il loro rischio di incorrere in infortuni o incidenti e riconoscere che la loro vita ha valore. La filiera degli appalti non deve essere una zona franca per lo sfruttamento.
     

  5. Riaffermiamo che chi cresce, studia, vive, lavora insieme a noi è parte di noi. Migliaia di giovani cresciuti in Italia non sono ancora cittadini. Dieci anni sono un’eternità quando hai vent’anni. E mentre aspetti, non puoi votare, non puoi partecipare, non puoi scegliere. Votare SÌ per dimezzare i tempi è un passo in avanti nella lotta contro l’esclusione strutturale, che permetterà alla nostra generazione di essere finalmente intera.

Le norme che contribuiremo ad abrogare l’8 e il 9 giugno tramite referendum sono il risultato di precise scelte politiche, fatte da governi e da partiti che si sono presentati come riformisti, come “di centrosinistra”, o come “tecnici” ma che hanno smantellato diritti con la stessa determinazione con cui oggi parlano di Europa, futuro e merito.

 

Il primo quesito – quello contro il contratto a tutele crescenti – è figlio del Jobs Act voluto dal Partito Democratico di Renzi. Un progetto organico di destrutturazione del diritto del lavoro, costruito con il lessico della flessibilità. Un attacco frontale al diritto al reintegro, cioè alla possibilità di resistere, di rifiutare l’ingiustizia, di non vivere sotto ricatto.

 

Altri due quesiti – quelli sulla precarietà nei contratti a termine e sull’esclusione della responsabilità solidale negli appalti – sono il frutto del governo Draghi, sostenuto da un arco parlamentare larghissimo, dallo stesso PD a Fratelli d’Italia. Un governo che, mentre firmava il PNRR e parlava di “resilienza”, approvava misure che lasciavano migliaia di lavoratori in appalto senza protezioni reali, e rendevano più facili i contratti senza garanzie.

 

Queste norme sono state scritte in nome della competitività. Ma la competitività costruita sulla pelle di chi lavora è solo una forma di violenza normalizzata. 

 

E allora no, non possiamo cedere alla retorica del “non è il momento di dividerci” o “pensiamo al futuro”: è proprio per pensare al futuro che dobbiamo avere memoria politica del passato.

Noi stiamo da un’altra parte. Dalla parte di chi subisce la precarietà, di chi lavora in filiera, di chi cresce in Italia e aspetta dieci anni per avere una voce.
Non abbiamo nostalgia del centrosinistra che firma leggi di destra.
Non abbiamo spazio per chi finge di non sapere.
Abbiamo solo voglia di costruire, insieme, un altro mondo.

E per farlo, l’8 e 9 maggio, votiamo SÌ. Cinque volte.

A chiudere il cerchio, sono i partiti che sostengono il governo Meloni – Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia – a mostrare il loro vero volto: chiedono l’astensione. Dicono che non andare a votare è una scelta politica. E hanno ragione. È una scelta che svela perfettamente da che parte stanno: dalla parte del profitto senza responsabilità, della precarietà come ordine naturale, dell’esclusione come criterio di appartenenza.

 

Hanno paura che i referendum passino perché dimostrano che si può ancora lottare e contare. Perché se vincono i SÌ, a perdere saranno loro: i padroni, i costruttori di barriere, i normalizzatori della paura.
 

Votare SÌ è un gesto di rottura e di costruzione. È farli tremare.

Il referendum dell’8 e 9 giugno è per noi un terreno di lotta. Non perché la rivoluzione arriverà per decreto, ma perché ogni occasione in cui si può indebolire l’ordine capitalista va colta. 

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Compagne, usiamo questi strumenti con lucidità. Non con illusioni, ma con strategia. Ogni norma che cade è una crepa nell’edificio del dominio. Ogni diritto che si riconquista è una base per l’offensiva futura. Il potere non si chiede: si prende. Ma prima lo si indebolisce. E votare SÌ è indebolire il potere dei padroni. E tornare a fare loro paura.

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